NONNISI AB OBSCVRA SIDERA NOCTE MICANT

"Le stelle non risplendono, se non nella notte oscura"

Alba del 15 giugno 1918: Fanti e Artiglieri accerchiati dalla fanteria Austroungarica che dilaga dalle alture durante la Battaglia del Solstizio, stretti attorno all'ultimo pezzo; è un'immagine di fonte incerta, citata come lastra fotografica scattata dal Cappellano prima di morire (una copia è presente anche nella sala del medagliere del Duca D'Aosta presso il Museo della Terza Armata di Padova, quella sopra riportata è tratta dalla cartolina originale della Collezione Aluisini). Secondo alcuni la stampa britannica (The War Illustrated - 1 dicembre 1917) pubblicò quella stessa immagine già sei mesi prima dell'evento citato sulla didascalia della cartolina ufficiale e riferendola invece a un imprecisato punto lungo l'Isonzo appena superato dagli austriaci durante l'offensiva di Caporetto.

Un altro esemplare di questa immagine è conservato presso il Museo del Nastro Azzurro di Salò e riporta delle diciture manoscritte tese, secondo l’autore delle medesime, a riconoscere alcuni dei protagonisti della foto, tra i quali egli ritiene il Capitano Eugenio Bellini, indicato come della 7^ Batteria del 90° Reggimento Art. da Campagna (nell’Albo d’Oro dei Caduti risulta del 30° - secondo il quale l’ufficiale spirò quel giorno presso la 30^ Sezione di Sanità) oltre a Fanti e Mitraglieri del 256° (?); stando alle note manoscritte l’episodio si registrò tra le ore 11 e l’una del 19 giugno 1918 (le note proseguono - invisibili - sul retro della fotografia, sottovetro). Se quindi non è mai stato possibile collocare storicamente questa immagine in modo preciso, o addirittura riferirla a una fotografia di pura propaganda costruita o sfruttata ad hoc, questa “testimonianza” è comunque da tutti riconosciuta come uno dei simboli del sacrificio dei Soldati italiani nella Grande Guerra

La fotografia resta il modo migliore per fissare un istante della vita. Anche l’istantanea meno sofisticata infatti, nella misura in cui cattura e ci rende in un attimo i sentimenti dei protagonisti, le caratteristiche di un ambiente perduto, le fattezze dei costumi e degli strumenti dell’uomo, trasmette quelle emozioni che per essere descritte richiederebbero pagine di prosa. Questo è il motivo per il quale un’affrettata istantanea esprime tutto il contenuto del libro: è un’immagine in parte sfuocata, a prima vista solo apparentemente mal riuscita, scattata durante una qualsiasi giornata della Grande Guerra, un sole malato sulla strada sterrata. Per sfondo la distruzione della tranquilla vita di un piccolo paese di montagna. I tetti sfondati, le macerie bruciate ai lati della via: non un abitante o un animale domestico. Al centro una breve fila di soldati italiani, abbastanza ordinata ma non tanto da nasconderne l’andatura affaticata, l’incedere incerto degli scarponi trascinati sul pietrisco. Pesa nelle gambe la lunghezza della marcia mentre le armi ingombrano e gli zaini affardellati tagliano le spalle ma il riflesso condizionato della disciplina prevale sulla stanchezza, così l’ultimo uomo affretta il passo per serrare i ranghi. Sono giovani ripresi di spalle, tutti appartenenti a reparti diversi e dei quali non conosceremo mai i volti, con lo sguardo teso a cercare qualcosa oltre le spalle del compagno davanti, fino a dove la fila si perde, forse la sospirata tazza d’acqua o un posto dove riposare. L'espressione inconsapevole del sentimento di una generazione chiamata allora ad un sacrificio estremo che affrontò onorevolmente ma del quale non comprendeva fino in fondo le ragioni. Ma il senso del dovere li tiene inquadrati verso un destino che costringerà molti di loro, come si dice fra gli Alpini, ad "andare avanti”, fondendo così indissolubilmente le vite dei singoli con le pagine del tempo. Ed è di cinque di loro che ripercorreremo la storia: chi veterano delle campagne d’Africa, chi “ragazzo del ’99”.

Tutti giovani avvezzi ai duri sacrifici imposti dalla società di allora anche nel pesante lavoro dei campi o nelle fabbriche, ritratti nelle poche fotografie rimaste con occhi che non sorridono, presagio di un breve futuro. Scavando fra le pieghe delle loro esistenze li abbiamo così ritrovati dopo cent’anni in luoghi oggi creduti remoti ma che sino a qualche generazione fa riempivano il libri di scuola. Le montagne o le anonime doline dove consumarono la loro giovane vita si chiamavano infatti Ortigara, Cimone, Pasubio, Isonzo, Piave, luoghi laddove saranno travolti, in qualche caso contemporaneamente, come durante la “Strafexpedition” austro-ungarica del 1916 o negli scontri intorno a Gorizia nel 1917. In silenzio accettarono quel destino impostogli, sopportando sacrifici inenarrabili e divenendo a loro volta protagonisti di imprese eccezionali; si trovarono spesso inconsapevolmente a poca distanza gli uni dagli altri, lottando alla pari di personaggi che la storia patria celebrò nel modo più sontuoso. Un silenzio ritrovato ogni volta che risalgo solitario per quelle montagne o nell’Altopiano fuori stagione; un silenzio che solo la natura sa ricreare da sempre e all’infinito in quegli stessi luoghi divenuto per loro il comune sudario. Nessuno dei cinque ritornò infatti alla casa dalla quale partirono nel fiore degli anni.  Alcuni caddero in combattimento su cime inespugnabili o fra trincee sconvolte; altri sopravvissero solo per spegnersi di malattia o a causa delle ferite negli ospedali da campo prima ancora che la guerra finisse. Non potevano certo immaginare come la vita avrebbe poi intrecciato le successive generazioni ma fra i loro ultimi pensieri vi sarà stata sicuramente la speranza di non essere dimenticati. Per questo ricostruirne la storia e conservarne il ricordo ha consentito di onorare un debito di riconoscenza nei confronti di questi giovani soldati passati da quasi un secolo nella grande armata dell’aldilà e verso quanti allora, i loro stessi fratelli in armi o gente di remote contrade, ne condivisero il destino. E ci perdonerà il lettore laddove non ci siamo trattenuti dal riportare anche i nomi di altri soldati incontrati insieme ai protagonisti, italiani o austriaci che fossero, i cui destini si sono intrecciati nei registri polverosi o sui cippi fra le montagne, come se potessero parlarci degli altri scomparsi in prigionia, oltremare, nelle navi affondate o nei cieli solcati dai primi aerei da caccia poichè “Chi per la patria muor vissuto è assai, la fronda dell’allor non langue mai” (dall’opera “Caritea regina di Spagna” di Saverio Mercadante, andata in scena per la prima volta a Venezia - Teatro La Fenice il 21 febbraio 1826)

(dalla premessa di: "Molti non tornarono" di Stefano Aluisini e Ruggero Dal Molin)

E che, disperando ormai dal trovarli, mai ci saremmo immaginati di poterli infine raggiungere e raccontare grazie ai valori e all'impegno di nuovi e sinceri amici.

Calalzo di Cadore (BL), giugno 1992 - Folgaria (TN), settembre 2014

 Fanteria italiana in marcia all'uscita della Val Magnaboschi, verso Cesuna (fonte: ASDM)

Lo stesso luogo e lo stesso gruppo di case, oggi (fotografia di Stefano Aluisini)

       Fanteria italiana in marcia supera Casera Magnaboschi e si dirige verso Cesuna (1916)

LUMINA SI QUAERIS BENEDICTE QUID ELIGIS ANTRA

QUAESITI SERVANT LUMINIS ANTRA NIHIL

SED PERGE IN TENEBRIS RADIORUM QUAERERE LUCEM

NONNISI AB OBSCURA SIDERA NOCTE MICANT

Se cerchi le luci, Benedetto, perché scegli le grotte?

Le grotte non conservano nulla della luce che tu cerchi.

Ma tu continua a cercare la luce dei raggi nelle tenebre.

Le stelle non risplendono, se non nella notte oscura.

(da una lapide del monastero di Subiaco - traduzione di Marco Cristini)